Poggio alla Croce

Società Mutuo Soccorso Poggio alla Croce

La Storia - Badia Monte Scalari

Per l’importanza storico – artistica e per la primaria influenza che ha avuto negli anni passati su tutto il territorio circostante e quindi anche sul vicino Poggio alla Croce è necessario parlare dell’abbazia di San Cassiano a Monte Scalari o Badia Monte Scalari. Alla luce dei documenti si può dire che stendeva i suoi possessi per un ampio raggio, ed anche in Firenze esercitava il patronato sulla chiesa di S.Fiorenzo.

La storia della Badia ha un intervallo che dall’XI secolo raggiunge i nostri giorni.

La Badia è posta al confine tra il Comune di Greve in Chianti e quello di Figline Valdarno, mentre la strada di accesso parte dal paese della Panca (già Pancole).

La fondazione dell’edificio è databile con difficoltà; prima della Badia aveva sede un piccolo ricovero e un oratorio, proprio come i primi edifici del nostro paese. Il primo svolgeva funzioni di “hospitium” cioè di ricovero e posto di ristoro per viandanti e pellegrini che transitavano sulla vicina via Cassia. L’oratorio era dedicato a San Cassiano, vescovo di Labiona, che nei tempi antichi era molto venerato in Toscana e visse nel III secolo al tempo di Giuliano l’Apostata. Era un maestro di scuola e fu condannato ad essere ucciso dai suoi scolari con gli stili che questi usavano per scrivere sulle tavolette di cera. La festa è il 13 agosto; patrono dei maestri e degli scrittori. In seguito, per cura e iniziativa dei Buondelmonti, l’edificio fu trasformato in monastero. Poi fu sede dei chierici secolari, che si addottoravano nel monastero di Passignano, dove aveva sede il “Collegio dei Vallombrosani”.

Una carta di donazione datata gennaio 1040, afferma che una comunità monastica che si raccoglieva per le liturgie in un oratorio dedicato a San Cassiano, ricevette una donazione dai signori del vicino castello di Cintoia e più precisamente Giovanni e Teodorico, figli di Teodorico e Ranieri che donarono ai monaci vari appezzamenti di terreno, per complessivi tre scaffili, situati nelle vicinanze.

Poco dopo quel primitivo insediamento religioso, abbracciò la riforma vallombrosana fondata da Giovanni Gualberto della famiglia dei Visdomini, allacciandosi alla regola benedettina. Verso il 1070 le carte parlano del preposto Domenico. Nel 1078  l’Abate Eppo firma una carta di affitto di beni, questo afferma ormai la presenza vallombrosana a Montescalari.

I monaci imprimono la loro presenza nell’ambiente, seguendo la loro consuetudine e modificano le condizioni sociali della zona, tenendo in auge la dignità del lavoro e anche della terra; costruiscono strade e coltivano ampie zone di terreno.

Le memorie di quest’attivo Abate iniziano nel 1078, da dove si viene a conoscenza che col reddito delle “livellarie”, di un non piccolo numero di poderi, delle “serve” di quei numerosi boschi e diversi mulini posti nella gola dell’Arno presso il ponte di Rignano e il torrente Ema, i suoi monaci furono in grado di prestare i lori buoni uffici negli “spedali” che costruirono dopo quello di Monte Scalari lungo le strade più frequentate. Forse è proprio questa l’origine dei primi edifici sul piccolo passo di Poggio alla Croce. I più antichi risultano quelli edificati nel castello di Monte Buoni e sulla strada di Siena.

Avevano anche giurisdizione su ponti e passaggi obbligati di strade, riscuotendo le “ripe” come allora si diceva, o pedaggi come si dice oggi. In seguito il monastero divenne così importante che, per due secoli, vide affluire lasciti e donazioni da parte delle nobili famiglie del territorio, finché nel 1137 fu innalzato a “Abbazia”. La ricchezza dell'abbazia è confermata dalle elevatissime tasse che dovette pagare in occasione delle decime a cavallo tra il XIII e il XIV secolo: fu infatti tassata per ben 32 lire e 10 soldi.

Occorre quindi parlare della Badia come una delle sette dell’ordine Vallombrosano e più precisamente la quarta ad essere edificata.

Ai primi del XIII secolo, l'antico ospizio fu trasformato in una chiesa a croce latina, consacrata il 26 maggio 1212 dal vescovo di Fiesole Ranieri come attesta l’incisione su una pietra davanti alla chiesa. L’edificio ad aula unica e copertura a capanna, aveva due altari che fiancheggiavano il maggiore; nel 1585 l’Abate Don. Vittorio Bonaccini lo fece rifare spostandolo più indietro.

In origine era conclusa da un abside semicircolare ma in seguito venne sostituita da una scarsella quadrilatera.

Sull’altare maggiore c’era l’Assunta del pittore Mariotto detto “il Brina” (1583): la Madonna era circondata da S. Cassiano, da S. Benedetto, da S. Giovanni Gualberto e da S. Bernardo degli Umberti, vallombrosano, cardinale e vescovo di Parma.

Sopra gli altari laterali vi erano tele di Andrea Boccacci, discepolo del Cigoli. La Flagellazione fu sostituita con S. Giovanni Gualberto, opera della Sig.na Rosselli del Turco.

Notevoli anche una lunetta del XII secolo e sotto l’altare maggiore la toma del primo abate, Eppo o Eppone, discepolo di Giovanni Gualberto, che venne dichiarato  Beato.

Nell'abbazia c'è una parte di affresco, la Crocefissione, nella quale si vedono solo i piedi del Cristo e la parte inferiore della Croce, affresco attribuito a Bernardo di Stefano Rosselli.

Altri dipinti sono: “Samaritana al pozzo” e un “Ecce Homo”, dei quali si è conosciuto l'autore grazie a un ritrovamento di documenti nell'Archivio di Stato del 1611, il pittore Nicodemo Ferrucci.

Gli affreschi che decoravano la chiesa sono stati gravemente danneggiati dal tempo e dall’incuria dell’uomo che ha utilizzato per lungo periodo la chiesa come fienile.

Del restante patrimonio artistico sono rimasti la navicella e il turibolo in rame sbalzato e dorato, che si trovano attualmente nella Pieve di San Donato a Mugnana a Chiocchio. Il turibolo è conosciuto come turibolo di San Giovanni Gualberto, ha una forma a pinnacoli e nel braciere sono raffigurati San Pietro, San Paolo, un Santo Vescovo e la Vergine. Negli spigoli ci sono figure angeliche in rilievo. Il coperchio è decorato con vegetali e teste di cherubini. La navicella è decorata con uva e mazzi di spighe di grano. Sul coperchio c'è l'immagine di San Giovanni Gualberto. Essi sono datati tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII secolo.

Di grande importanza era la torre campanaria, alta 25 metri, costruita nel 1339, a base quadrata, in pietra serena in grandi bozze disposte a filaretto, senza aperture fino alla cella campanaria che era aperta da finestre bifore su ogni lato. Questa era l'unica parte del monastero a non essere mai stata manomessa ma purtroppo fu distrutta dalle mine che il 20 luglio 1944 furono poste e fatte brillare dai tedeschi per ostacolare il passaggio degli alleati. Fortunatamente, la torre cadde su se stessa, forse le cariche esplosive non erano sufficienti a farla saltare in aria, o i fornelli delle mine non esplosero tutti, consentendo così il salvataggio delle due campane.  Anche le campane erano di grande valore, non tanto la più piccola del 1295, spostata nella chiesa de La Panca, quanto l'altra più grande realizzata da Andrea del Verrocchio nel 1474. L’abate don Isidoro commissionò allo scultore, oramai noto a Firenze per aver realizzato la palla della cupola del Duomo e la sepoltura di Pietro di Cosimo dei Medici in San Lorenzo, di fare una campana del peso di 2600 libbre. Il Verrocchio la progettò ricca di bassorilievi, ben descritti dall’Abate don Fulgenzio Nardi del monastero, nelle sue “Memorie Vallombrosane” che si conservano nella biblioteca del Seminario arcivescovile di Firenze. Da una parte esisteva il bassorilievo con la Madonna e il Bambino in braccio e la scritta: ”Ave Maria plena – Dominus te”. Dall’altra l’effige di San Giovanni Gualberto con l’iscrizione: ”Mentem Sanctus spontaneam honorem Dei et patriae liberationem” e sotto, in un altro cerchio “Hoc opus factum fu anno MCCCCLXXIV die primo octobris”. Vi era anche bene impressa l’arme della Badia di Monte Scalari: cinque monti con una scala addossata e una croce in cima. Si racconta che la campana fu gettata nel chiosco del monastero e il forno di fusione fu alimentato da ben diciannove cataste di legna grossa, fornite dalle vicine abetine. Il metallo, cominciò a fondere alle tredici del 21 ottobre 1474 e finì la seguente notte alle ore 8. Erano presenti l’Abate Isidoro, il Camarlingo don Calvano, don. Bernardo, don Pietro, don Stefano, fra Clemente e altri monaci dei monasteri fratelli di San Salvi e di Passignano. Il 24 ottobre la campana venne dissotterrata alla presenza del Verrocchio e dell’Abate generale don Francesco Altoviti, degli abati di Passignano, di Santa Trinità e di Coltibuono e fu solennemente benedetta dall’Abate don Isidoro che la battezzò con il nome di “Maria Brigida”. Il 31 ottobre alle ore 22 fu posta sul campanile e fatta suonare tutto il giorno d’Ognissanti: 1 novembre 1474.

Dopo la soppressione della famiglia Vallombrosana la  preziosa campana venne venduta nel 1808 al pievano Sacchetti  della chiesa di San Pancrazio in Valdarno nel Comune di Cavriglia, dove nel 1815 si ruppe. Per somma ignoranza del Pievano e per negligenza delle autorità fu quindi rifusa e ridotta più piccola e così la grande opera del Verrocchio andò miseramente perduta.

Tra il 1611 e il 1613 l'abbazia  fu completamente ristrutturata ed ampliata, con la costruzione delle cantine, delle stanze per il Padre Abate, del Capitolo, della Sagrestia e di tutte le celle per i monaci. Perse così l’originario stile romanico e l’aspetto di castello medioevale, aprendo nelle grandi mura finestre e aggiungendo ad est una nuova ala dell’edificio. I lavori ebbero inizio il 27 dicembre 1611 e con essi l'abbazia assunse i caratteri di una villa signorile, con pareti intonacate e porte in pietra arenaria, finestre con davanzale sorretto da mensole inginocchiate. Fu realizzato anche un loggiato superiore, con colonne in pietra serena e colonne in ordine tuscanico, che posano su un davanzale in pietra. Questi lavori in pietra furono eseguiti dallo scalpellino Bartolomeo di Berto da San Donato.

All’esterno sono evidenti i rifacimenti seicenteschi di Alfonso Parigi, ma ancora resta intatto l’antico portone principale del monastero che termina in un torrino sorretto con beccatelli a tutto sesto, sorretti da mensole in pietra, elegante ed imponente nello stesso tempo.  I due portali hanno cornici bugnate in pietra arenaria, di stile cinquecentesco; quello principale ha l'arco che termina con una piccola cuspide, quello spostato verso est ha l'arco decorato con lo stemma mediceo. Sul portale principale  c'è lo stemma in terracotta invetriata con le insegne dell'abbazia, eseguito nel 1505 da Luca Della Robbia (il giovane), al tempo dell’abate Dom. Biagio Milanesi. Sotto questo, in pietra, c’è lo stemma di Montescalari: che si trova anche in altre parti del complesso. La presenza di alte mura e torri ci fa capire che l’abbazia ha avuto nel Medioevo anche un’importante funzione difensiva.

Il 9 settembre 1775 il monastero venne soppresso dal Granduca Pietro Leopoldo e chiuso definitivamente con decreto del13 e del 25 gennaio 1776. I monaci furono trasferiti, insieme al ricchissimo archivio storico, al San Virgilio di Siena, attuale sede dell’università degli studi, dopo sette secoli di attività. I beni del monastero furono tutti venduti, le grandiose selve di abeti che erano intorno, notevoli per la loro bellezza, vennero tagliate. Tanta fatica di secoli fu distrutta in pochi anni.  Nel 1787, la chiesa fu eletta in parrocchia, dipendente prima dalla pieve di S. Romolo in Gaville, in seguito a quella di S. Pietro a Cintoia mantenendo il titolo di San Cassiano.

La parrocchia nel 1833 aveva cinquantacinque abitanti, nel 1936 quaranta e diciassette nel 1951.

Dal 1830 al 1980 circa è stata proprietà della famiglia Rosselli Del Turco.

Dopo i danni subiti durante la seconda guerra mondiale, fu intrapresa una campagna di restauri che portarono all'eliminazione delle varie aggiunte e fu possibile recuperare l'originale paramento murario in filaretto; la parrocchiale fu ricostruita dal genio civile, ma la torre rimase spezzata.

Adesso l’edificio, abitato da privati, si presenta in condizioni assai precarie.

La devozione a San Giovanni Gualberto si espresse con diversi tabernacoli e cappelle isolate nel bosco circostante. Resta la struttura di un solo tabernacolo, in cattive condizioni, e una cappella presso la strada che va verso il Valdarno (sentiero CAI 23). Lì c’è una fonte che si dice suscitata dallo stesso Santo, valida a guarire, secondo la credenza popolare, i ragazzi colpiti dalla pertosse (la tosse canina o cavallina). E’ chiamata “Fonte Saracina” o “Fonte del Santo”.

L'abbazia e i boschi circostanti fanno da sfondo alle indagini del commissario Bordelli, il protagonista del romanzo di Marco Vichi Morte a Firenze; infatti a neanche cento metri dall'abbazia sorge il tabernacolo citato nel libro nel quale è incisa la misteriosa scritta Omne Movet Urna Nomen Orat che tanto colpisce il commissario. Nei pressi sorgono anche altri luoghi citati nel romanzo, quali la Cappella dei Boschi, Cintoia Alta e Pian d'Albero.

Nella zona chiamata “dei Vescovi” troviamo un piccolo edificio, la “Cappella dei Boschi” al momento semidistrutta. All’interno, nella facciata frontale, c’era un affresco della Madonna col Figlio tra gli Angeli, circondata da quattro figure pontificalmente vestite. L’ingiuria del tempo e l’incuria dei proprietari hanno fatto si che queste notevoli rappresentazioni, non siano più visibili.